A mulàzza

La molazza, come si può vedere nella foto, è costituita da una grossa pietra verticale  che girando e ruotando contro una analoga pietra orizzontale  macina i semi oleosi. Per fare l’olio occorre avere una superficie molto elevata della parte oleosa, non serve “frullare” ed avere una polverina, serve schiacciare e macinare il seme in modo da portare la parte “molle”, quella che contiene l’olio, alla massima finezza possibile, senza ridurre in polvere l’altra parte del seme, quella più dura, che è lo scarto e che costituirà il panello. La molazza schiaccia e macina grazie al peso e alla rugosità della superficie che con l’andar del tempo si liscia e va ripristinata. Per questa operazione occorre l’intervento del “pica préi”, l’artigiano specializzato che martellando con i suoi scalpelli appuntiti e temperati rende la superficie della molazza come un muro strullato, in grado di lavorare per parecchi anni.

Il moto è generato da un motore elettrico che trasmette la rotazione ad una grossa  puleggia tramite una cinghia di cuoio piatta e larga 15 centimetri. Per evitare lo slittamento alla partenza si mette la “pesa greca” una miscela collosa che si fa cuocendo i cristalli di pece greca con un po’ di olio, quello di minor pregio. Alla puleggia è collegato un pignone che fa girare una ruota dentata collegata alla macina. Il moto è di circa 30 giri al minuto.  I denti della ruota erano inizialmente di ferro, ma l’attrito tra il ferro del pignone e il ferro della ruota era troppo rumoroso, anche con interposto tanto grasso. Allora si sostituirono i denti di ferro con i denti di legno che si consumano, è vero, ma non fanno rumore! Questi denti però devono essere fatti su misura e con un legno duro e stagionato. Ul legnamé lasciava da parte la rugua (la rovere) più vecchia, dal colore verdognolo e con quella realizzava i denti più resistenti. Quando erano usurati, diventavano appuntiti, si rompevano e dovevano essere sostituiti. Erano un ottimo combustibile per la fornella, avevano la forza del carbone.

Due o tre sacchi di juta con il seme oleoso da macinare si svuotano nelle vicinanze della molazza e si fa un bel mucchietto. Il caricamento si fa con “ul baén”, una grossa pala simile a quella che oggi si usa per spalare la neve. Si buttano nella padella circa 100 kg di semi, quanti possono starci perché “ul fa sutu” riesca ad indirizzarli in continuazione sotto la pietra. La lavorazione dura circa mezz’ora e quando il seme è diventato fine e la mano del panelatu giudica sufficiente la macinazione, è arrivata l’ora di scaricare. Come? Con un badile più piccolo infilato nella padella appena passata la molazza e tirato fuori con il seme macinato prima che la pietra arrivi nel giro successivo. E’ un movimento che deve essere cadenzato in maniera precisa perché il moto della molazza è inesorabile e…qualche badile è rimasto “macinato” sotto la pietra. Negli anni 60 per migliorare ed accelerare la macinazione sono state introdotte le molazze doppie, doppie pietre anche se più piccole e meno pesanti della singola molazza.  In queste macine è impossibile togliere il seme macinato con il badile perché non c’è spazio sufficiente. E allora è stato inserito “ul fa foa”, un robusto ferro disegnato appositamente per portare all’esterno il seme macinato. Viene tenuto sollevato con una cinghia di cuoio durante la macinazione e viene sganciato alla fine, insieme all’apertura di una fessura nella padella.  In pochi giri il seme si rovescia per terra e con il badile si sistema nel mucchio del seme macinato pronto per le successive lavorazioni.

La molazza non serve solo per macinare i semi e prepararli alla spremitura nei torchi, ma anche per macinare il panello dopo la pressatura e renderlo in polvere per la vendita.  In sintesi, i semi oleosi vengono macinati, riscaldati e introdotti nei torchi. Per pressione esce l’olio e quello che rimane è il panello. Si presenta, come spiegheremo nella parte dedicata ai torchi, in forme tipo quelle del formaggio grana alte 3 centimetri e di 36 centimetri di diametro, durissime perché sottoposte ad una pressione di 300 atmosfere. Si buttano nella molazza e si lascia macinare finchè le forme non diventano una polvere fine, il vero panello da vendere.  Ma la polvere deve avere la stessa granulometria e perciò il panello va “crubiato” in modo che i pezzi più grossi vengano separati.  Con la molazza singola l’operazione è facile. Si prepara un “crubiu” piano, inchiodando una rete metallica di 1 metro per 2 con una luce di 5 mm su un telaio di legno che si appoggia alla padella della molazza inclinato di 45 gradi. Si chiude lateralmente con “stàge” di legno in modo che stia in piedi da solo e si mette sul retro un sacco lungo per non far uscire la polvere.  In sezione è un trapezio con la parte inclinata formata dalla rete metallica che casca nella padella della molazza.

Ul panelatu prende il badile piccolo, lo introduce nella padella, lo riempie di panello macinato e lo getta sul “crubiu”. La parte fine passa il setaccio e si raccoglie sotto la rete mentre la parte grossolana scivola e ritorna nella padella. “Ul fa sutu” la indirizza sotto la molazza per una ulteriore macinazione.  Badilata dopo badilata, sempre al ritmo della molazza in rotazione, si svuota tutta la padella e il panello fine è pronto per la vendita.  Con la molazza doppia non si può usare questo sistema e allora dopo la frantumazione e lo scarico nell’apposito mucchietto si passa il panello nel macinatutto. Nella sua versione più semplice è un grosso macinacaffè con una lama che ruota velocemente in senso orizzontale, polverizza la parte grossolana e spinge la parte più fine verso l’esterno per forza centrifuga. Una griglia posta su una bocca esterna definisce la granulometria e ciò che deve lasciar passare. Non solo, dà anche la possibilità di raccogliere il panello macinato direttamente nei sacchi di juta, pronti per la pesatura e la vendita.  Questo macinatutto serve per quantità limitate, per quantitativi maggiori si passa alla versione a “martelli”. Si tratta di una macchina molto potente, una camera di macinazione piccola, un sistema di parallelepipedi di acciaio (i martelli) che ruotano verticalmente a 3000 giri al minuto e che polverizzano qualsiasi cosa. Anche qui una griglia definisce la granulometria e il panello macinato casca per terra. Un tentativo di inviare la polvere in un ciclone per poi insaccare direttamente è fallito miseramente perché il panello ha un peso specifico elevato e il ventilatore accoppiato al motore dei martelli non è sufficiente a spingerlo ad almeno 3 metri di altezza. Così sotto il macinatutto si forma un mucchietto di panello macinato che si insacca manualmente con “ul baèn”.   Si pesa, si porta a 50 kg, peso standard (allora) e si consegna con il camioncino.