Da Dante Alighieri a Johann Sebastian Bach:
incontri mariani in parrocchia
Una leggenda della Nuova Guinea racconta che molto e molto tempo fa le donne avevano una bellissima barba e gli uomini, che ne erano del tutto privi, soffrivano atrocemente per una mancanza che sentivano come una umiliazione. Allora le donne si riunirono in assemblea e la più saggia propose di rinunciare all’«onor del mento» e di concederlo agli uomini; il motivo era semplice e fu spiegato con chiarezza: «Gli uomini hanno bisogno di sentirsi forti e vedono nella barba un segno di gagliardìa. Noi sappiamo che la barba non è l’essenziale e sappiamo anche che la vera forza è quella interiore, non quella dei muscoli: diamo pure loro i peli del volto, cui tengono tanto, dal momento che il vigore vero, quello che ci rende capaci di amore e di sacrificio, nessuno ce lo può togliere». Fu così, conclude la leggenda, che gli uomini acquistarono la barba e le donne mantennero la forza. È una storia bella e profonda, che fa pensare alla Madonna e alla tradizione che la celebra. Uno dei testi più famosi intorno alla Vergine è lo «Stabat mater», composto nel secolo XIII, forse da Jacopone da Todi, e proprio la prima parola è forse la più significativa. Spesso si traduce “stabat” con “stava”, ma tra il latino e l’italiano passa una notevole differenza: “stare” non significa semplicemente “stare”, ma vuol dire “stare in piedi, stare diritto”, cioè, nel caso della Madonna, provare tutto il dolore che una madre prova alla morte del figlio, ma non abbattersi. Così, con un semplice verbo, Jacopone – se è lui l’autore – sottolineava un elemento essenziale: nelle ore più difficili, quando tutti gli amici di Gesù, tranne Giovanni, avevano avuto paura ed erano fuggiti, lei, la Madre, non si era abbattuta, non aveva perso la fede nel Figlio. C’è, all’inizio dello “Stabat mater”, la proclamazione dell’esemplarità di Maria che resiste alla prova; ed è per questo, per la sua fede che non crolla nelle ore più tremende, che a lei è dedicata tradizionalmente la giornata di sabato: quella che sta sospesa tra lo strazio della passione e l’esultanza della pasqua, quella in cui poteva resistere solo chi sapeva leggere, al di là delle apparenze tragiche, il significato vero della sofferenza propria e di quella altrui. Ma la seconda parte dell’inno celebra nella madre sofferente la grande mediatrice, colei che è, secondo la definizione delle litanie lauretane, la porta del paradiso, “ianua caeli”. Soprattutto l’ultima strofa, “Quando corpus morietur / fac ut animae donetur / paradisi gloria”, sottolinea questa funzione essenziale della Vergine nella storia della salvezza: “Quando il corpo morirà, fa’ che all’anima sia donata la gloria del paradiso”. In ogni epoca e in forme diversissime la spiritualità cristiana ha sempre guardato a Maria in questa prospettiva, vedendo in lei il modello della fede e la soccorritrice. A Milano, poi, il culto ha avuto uno sviluppo inaspettato alla fine del secolo XIV, quando il primo duca, Gian Galeazzo Visconti, dopo avere fondato il duomo e averlo dedicato “Mariae nascenti”, cioè a Maria bambina, decise di mettere sotto la protezione della Vergine non solo le figlie, ma anche i maschi, aggiungendo loro – cosa fino a quel tempo mai tentata da alcuno – come secondo nome quello di Maria. Così il primogenito Giovanni si chiamò Giovanni Maria, il secondogenito Filippo, Filippo Maria: e la tradizione piacque tanto, che fu continuata dalla seconda dinastia ducale, quella degli Sforza, e si estese da Milano alla Lombardia e dalla Lombardia all’Italia e dall’Italia all’Europa. Questo non è che un piccolo segno, per quanto molto significativo, del culto moderno alla Vergine. In realtà la vita quotidiana ne è stata pervasa, così che perfino i fiori, nel linguaggio popolare, ne ricordano il nome: e basterebbe pensare agli “occhi della Madonna”. Ma l’arte, nelle sue diverse manifestazioni, non è stata da meno. Ad alcuni aspetti del culto è dedicato il ciclo di incontri di quest’anno. Si partirà con Dante e con la sublime preghiera con cui, all’inizio del canto XXXIII del “Paradiso”, san Bernardo supplica la Vergine “ianua caeli” di aprire al pellegrino la porta del paradiso; si proseguirà poi, settimana dopo settimana, con uno sguardo sulle tradizioni dell’Europa orientale, sotto la guida di uno specialista come Cesare Alzati della Cattolica di Milano; con i santuari mariani (e in particolare con il monumento insigne che è Santa Maria di Busto) affidati alla competenza a un tempo erudita e cordiale di Luciano Patetta del Politecnico milanese; con la musica. Infatti l’ultimo incontro sarà dominato dai “Magnificat” di due giganti della cultura e della spiritualità, Claudio Monteverdi e Johann Sebastian Bach, presentati dal musicologo Lorenzo Bianconi dell’università di Bologna. Sono solo quattro esempi, ma soprattutto sono quattro occasioni per ritornare a meditare su un culto che ha segnato profondamente la nostra storia e che ha ancora molto da insegnare.
Edoardo Fumagalli
Parrocchia di San Michele Arcangelo
Busto Arsizio
Ciclo di incontri su
Ave Maria
aspetti del culto mariano
Programma
26 aprile ore 21
Sala parrocchiale di Piazza Manzoni 21
Edoardo Fumagalli
(Università di Friburgo, Svizzera)
La preghiera di san Bernardo alla Vergine
(Dante, Paradiso, canto xxxiii)
3 maggio ore 21
Sala parrocchiale di Piazza Manzoni 21
Cesare Alzati
(Università Cattolica, Milano)
L'affidamento del popolo cristiano orientale
alla Madre di Dio
10 maggio ore 21
Santuario di Santa Maria
Luciano Patetta
(Politecnico di Milano)
Architettura e simbologia dei santuari mariani
17 maggio ore 21
Chiesa di San Michele
Lorenzo Bianconi
(Università di Bologna)
Il cantico di Maria: da Monteverdi a Bach