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DISTURBI COGNITIVI E AFFETTIVI NELLA MALATTIA DI PARKINSON

 

 

Nella malattia di Parkinson si rischia di compiere, in fase diagnostica ma soprattutto durante il trattamento e in vista di un adeguato intervento terapeutico, una “sotto-valutazione” dei suoi aspetti psicologici.

 

I disturbi che riguardano la sfera cognitiva ed affettiva in questa malattia, se non marcati e, di solito associati ad una fase più avanzata della malattia, rischiano spesso di non essere posti ad un’ attenta valutazione. In questo modo, gli stessi disturbi corrono il rischio di non essere trattati con un adeguato intervento terapeutico. Questo non contribuirà a rendere meno doloroso e complicato il decorso della malattia, nonchè l’accettazione, da parte del paziente, di una forma degenerativa; quindi priva di una possibile “risoluzione” definitiva dei disturbi ad essa associati.

 

Inoltre questa “impostazione” non accompagnerà il malato alla conoscenza di quei disturbi e deficit che caratterizzano la sua malattia, e questo non lo aiuterà a rendere possibile una più sicura “convivenza” con essi, non tenendo conto, in definitiva, di quegli aspetti legati alla qualità della vita del paziente.

 

Con questo lavoro intendo riportare alla luce quegli aspetti clinici che, nella malattia di Parkinson, di fronte agli iniziali, più “evidenti” e più “diagnosticabili” disturbi motori, vengono di frequente trascurati.

 

Non sempre Demenza: Bradifrenia e Disturbi Cognitivi nella Malattia di Parkinson. La malattia di Parkinson presenta spesso un’associazione con quadri di demenza e con deficit cognitivi specifici; già notati verso la metà del secolo scorso da Trousseau e Charcot.

 

In circa il 10-15% dei pazienti con morbo di Parkinson si sviluppa una demenza.

 

La demenza associata a malattia di Parkinson è caratterizzata da rallentamento cognitivo e motorio, da compromissione delle funzioni esecutive, e da deficit della memoria di recupero [Text Revised, American Psychiatric Association, 2000].

 

Tuttavia, il quadro clinico della demenza, nei pazienti affetti da malattia di Parkinson, è molto variabile e le sue caratteristiche non sono uniformi.

 

Si fa riferimento, in merito, alla “demenza sottocorticale”, categoria diagnostica che include, insieme ad altre patologie, il morbo di Parkinson [Della Sala, 1990].

 

Negli ultimi anni si è assistito ad una graduale medicalizzazione della demenza trascurandone la psicopatologia. Questa negligenza è evidente nell’impostazione diagnostica ma soprattutto nella condotta terapeutico-assistenziale  [Fossi, et al.,1994], includendo in essa quegli aspetti propri della relazione del paziente con i familiari e col medico curante.

 

I principali fattori di rischio legati allo sviluppo di disfunzioni cognitive e di demenza nei pazienti con MP sono l’età avanzata, l’esordio della sintomatologia motoria in età avanzata, i precoci eventi confusionali o psicotici correlati alla terapia dopaminergica, il coinvolgimento assiale e del linguaggio, i disturbi motori severi (specialmente bradicinesia), i bassi punteggi a test cognitivi (specialmente alla fluenza verbale e ai test esecutivi), la depressione e il fumo.

 

Deficit cognitivi settoriali (esecutivo-frontali, mnesico-rievocativi, visuo-spaziali) sono rilevabili ancora più frequentemente e si sono recentemente dimostrati assai predittivi per la successiva evoluzione dementigena; essi appaiono pertanto meglio definibili, oggi, come deterioramento cognitivo lieve o Mild Cognitive Impairment (MCI) [Isella et al., 2004].

 

In recenti lavori è emerso, infatti, che fra i pazienti con lieve decadimento cognitivo si possono già identificare diversi profili neuropsicologici:  un deterioramento interessante soprattutto la memoria verbale; alterazioni delle sole funzioni esecutive; deficit delle abilità visuo-spaziali e di memoria visiva; variabili combinazioni di questi tre aspetti,  non tali comunque da produrre una demenza franca [Janvin et al.,2003; Green et al., 2002].

 

La degenerazione che investe i gangli della base ha infatti la tendenza, in alcuni casi, ad estendersi a sistemi di neuroni, sia dopaminergici che non, responsabili del controllo della memoria, del pensiero astratto, delle funzioni visuo-spaziali e così via.

 

I disturbi cognitivi si presentano con prevalenza del 40%, possono comparire anche in uno stadio iniziale della malattia e, quindi, in assenza di una vera demenza.

 

Il disturbo cognitivo  più caratteristico e frequente della MP viene spesso individuato nella cosiddetta bradifrenia o acinesia psichica, considerata come il corrispettivo cognitivo della bradicinesia (rallentamento nell’esecuzione del movimento).

 

Il termine bradifrenia venne introdotto dal neurologo francese Naville nel 1922, e viene usato per indicare molteplici difficoltà, intellettuali e psicologiche che, nei pazienti affetti da malattia di Parkinson, si evidenziano come perdita di concentrazione, incapacità a creare nessi logici, tendenza alla perseverazione e rallentamento generalizzato dei processi di pensiero [Boller, 1996]. Quest’ultimo si rende evidente con un’anomala lentezza , da parte del malato, nell’afferrare ed elaborare i concetti, pur senza deficit nell’accuratezza degli stessi. Va infatti sottolineato che, pur potendo determinare un’impressione di apparente demenza, la bradifrenia non corrisponde di per sé (o necessariamente) ad un deterioramento diffuso delle capacità cognitive.

 

Caratteristiche dei disturbi legati a disfunzione dei lobi frontali sono le alterazioni delle funzioni attentive, regolate dal “Sistema Supervisore Attenzionale” prefrontale, come la tendenza ad essere facilmente e tenacemente attratti da aspetti irrilevanti dell’ambiente e l’incapacità di dirigere volontariamente l’attenzione su stimoli ed eventi interessanti (set-shifting) [Isella et al., 2004]

 

I risultati di studi dei potenziali evocati evento-correlati (ERPs), combinati ai dati derivanti da misurazioni neuropsicologiche sono stati rispettivamente  interpretati come conferma della presenza di un disturbo di natura frontale della regolazione dei processi attenzionali e di un possibile deficit nei meccanismi frontali di controllo, mantenimento e shifting dell’attenzione  [Stam, e coll., 1993; Caltagirone, e coll., 1989; Brown e Mardsen, 1988; Taylor, e coll., 1986].

 

Anomalie delle funzioni esecutive di pianificazione (strategia che permette la corretta esecuzione di un compito), problem solving e set-shifting  sono disturbi cognitivi caratteristici della malattia di Parkinson [Mc Namara, 2003].

Il paziente affetto dalla malattia mostra incapacità a passare in modo agile e spontaneo da un concetto o da un comportamento ad un altro, non riuscendo quindi ad abbandonare prontamente un’ idea o un compito, anche semplice, in risposta al modificarsi delle condizioni ambientali (perseverazione).

 

E’ stato anche descritto un significativo deficit del ragionamento astratto, che fa si che il paziente colga solo gli aspetti più concreti e semplici della realtà [Levy et al., 2002].

 

La memoria, e più precisamente la “memoria di lavoro”, ovvero quel sistema di ripasso delle informazioni appena acquisite, nonchè le operazioni di recall e dating,  appaiono compromessi; i deficit interessano non tanto la capacità di memorizzare quanto la possibilità di accedere ai dati memorizzati.

 

Migliore diviene la capacità di richiamo attraverso il riconoscimento; in presenza di qualche elemento esterno che faciliti la ricerca del materiale da rievocare.

 

In sintesi, in questa malattia non si verifica una perdita delle tracce mnesiche e dei ricordi immagazzinati, ma una difficoltà ad elaborare e mettere in atto spontaneamente le strategie adeguate per accedere a tali ricordi.

 

Numerosi sono gli Autori che hanno riscontrato prestazioni deficitarie della memoria a breve termine e verso compiti messi a punto per l’indagine della memoria di lavoro in pazienti affetti dalla malattia. [Panisset, e coll., 1994; Marini, et al., 2003; Kensinger, et al., 2003; Tamura,  et al., 2003; Lewis,  et al.,  2003].

 

La memoria a lungo termine appare compromessa, specie per quanto riguarda  la memoria episodica e la memoria procedurale [El-Awar, e coll., 1987; Saint-Cyr, e coll., 1988], quel particolare tipo di memoria implicita (inconsapevole) che conserva ed attiva la procedura necessaria per lo svolgimento di prestazioni, motorie o cognitive più o meno complesse.

 

Anche l’apprendimento di nuovo materiale, comunque, appare compromesso, in parte a causa di una carenza di attenzione e in parte per la mancanza di un efficiente strategia d’immagazzinamento del materiale.

 

Sebbene in pazienti non dementi disturbi del linguaggio non influiscano in genere sull’efficacia complessiva della comunicazione, essi caratterizzano la malattia di Parkinson. Tali disturbi riguardano la comprensione di frasi, il processo semantico e l’integrazione lessico-grammaticale.

 

Esistono dati che suggeriscono come alla base delle cadute di prestazione ai compiti proposti per la ricerca di disturbi visuo-spaziali, nel caso di pazienti non dementi, possa essere un generico aumento dei tempi di reazione, o comunque deficit di natura attentiva, e non un disturbo specifico delle funzioni visuo-spaziali, che non appaiono differire dalla norma [Della Sala e coll., 1986; Della Sala, 1990].

 

L’assenza di correlazione tra deficit cognitivi e la gravità dei sintomi motori ed il fatto che i deficit cognitivi non migliorano dopo la terapia farmacologia anche quando quest’ultima riesce invece a migliorare di molto la compromissione motoria, fa ritenere che le stesse lesioni sottocorticali non siano responsabili di entrambi i tipi di deficit.

 

Il parziale danno delle vie noradrenergiche che dal locus coeruleus vanno alla corteccia e la diminuzione delle concentrazioni di noradrenalina in molte aree corticali (particolarmente amigdala, ippocampo e corteccia frontale) possono rappresentare le cause di deficit cognitivi in pazienti con PD [Garghentini et al., 1999]

 

I Disturbi “Affettivi” nella Malattia di Parkinson

 

Già Parkinson, pur sottolineando la rilevanza del quadro motorio, aveva descritto i suoi pazienti come infelici, scoraggiati e melanconici. Ball, psichiatra a Sainte Anne, fu probabilmente il primo a registrare la frequenza delle manifestazioni psichiatriche in questa malattia [Ball, 1882].

 

La più comune complicanza psicologica nel morbo di Parkinson è rappresentata dalla depressione. Sintomi depressivi sono presenti nel 25-40% dei casi e possono essere precedenti o concomitanti al quadro neurologico.

 

Si tratta per lo più di una depressione di lieve o moderata entità. Essa ha più spesso caratteristiche omogenee; più comuni sono i disturbi distimici e le depressioni maggiori, mentre il disturbo bipolare si ritrova eccezionalmente [Pavan, et al., 1999].

 

Tuttavia, quando la depressione compare in forma lieve, in  uno stadio iniziale della malattia e prima del caratteristico quadro sintomatologico motorio, la diagnosi di un concomitante stato depressivo può divenire difficoltosa; infatti molti segni, quali il rallentamento psicomotorio, l’espressione facciale, il tono della voce, la variazione del ritmo sonno-veglia, dell’appetito e della libido, fanno parte della sintomatologia propria del Parkinson o sono attribuibili a farmaci utilizzati per il trattamento.

 

Ecco perché la necessità di una corretta scelta e impiego di strumenti psicometrici in grado di misurare separatamente i sintomi affettivi da quelli della malattia e di sottolinearne l’autenticità del quadro depressivo nel Parkinson.

 

Secondo alcuni Autori [Santamaria, e coll., 1986; Starkstein, et al., 1990; Starkstein, e coll., 1992;  Uekermann, et al., 2003; Burn, 2002] la presenza  di depressione si assocerebbe ad un più rapido declino cognitivo.

 

Il fatto che la depressione possa precedere il quadro neurologico, possa non essere correlata alla gravità della malattia e al quadro di inabilità funzionale, sia di intensità maggiore rispetto ad altre malattie croniche invalidanti, fa pensare ad una patogenesi endogena del quadro affettivo collegato alla malattia, anche se alcuni Autori ne hanno sostenuto una genesi reattiva o un’origine endogena concomitante ma separata [Pavan, et al. 1999].

 

Pertanto la depressione nella malattia di Parkinson è stata attribuita da parte di alcuni ricercatori alle conseguenze della diminuita capacità di movimento e al generale stato di stress conseguente a tale inabilità; da parti di altri, invece, a una diminuita capacità di risposta del sistema serotoninergico [Sano, et al., 1991].

 

I pazienti depressi con Parkinson mostrano livelli dei metaboliti della serotonina più bassi di quanto non accada ai pazienti con Parkinson non depressi.

 

La ridotta attività nella corteccia prefrontale suggerisce inoltre che l’alterazione dell’umore è associata a un danno a carico dei lobi frontali, il quale contribuisce anche ad alcune modificazioni affettive e comportamentali osservabili con alta frequenza: la tendenza ad abbandonare le proprie attività quotidiane ed i propri interessi, la perdita di iniziativa, un atteggiamento apatico e abulico [Isella et al., 2002]. Dato che alcune di queste manifestazioni, come l’anedonia, possono anche rappresentare uno stato depressivo, ritengo corretto ribadire l’importanza di una maggior attenzione, da parte del clinico, verso questi aspetti.

 

Talora si accompagnano alla depressione, pessimismo, mancanza di interesse, autosvalutazione, tendenza al suicidio, disforia e sintomi somatici con anoressia e insonnia, e la presenza di una componente ansiosa.

 

I disturbi ansiosi, per lo più disturbi fobici, come irrazionale paura di cadere ( a causa dell’instabilità posturale: i pazienti con morbo di Parkinson perdono i riflessi di raddrizzamento, cosicché, se spinti od urtati con forza, facilmente cadono) e fobie sociali, ma anche quadri di ansia generalizzata e attacchi di panico sono abbastanza comuni.

 

Frequenti i disturbi psicotici quali allucinazioni specie visive e disturbi del pensiero, attribuiti alla terapia farmacologica.

 

Marcate oscillazioni del tono dell’umore (da eutimia a sintomi d’ansia e/o depressione) si notano anche in relazione al fenomeno “on-off” (modificazione della funzionalità motoria da normale “on” per 1-2 ore dopo l’assunzione del farmaco, all’immobilità quasi totale “off”). In questo caso fluttuazioni d’umore e della motilità spesso procedono parallelamente [Pavan, et al., 1999].

 

Conclusioni

 

Ho voluto riportare l’attenzione sui disturbi cognitivi ed affettivi che compaiono nella malattia di Parkinson al fine di ribadire la necessità di un approccio multidisciplinare, quindi di integrazione, non solo durante la fase di assessment clinico ma soprattutto nel corso dell’intero processo di “presa in carico” del paziente, di strumenti derivanti da diverse discipline (neurologia, psicofisiologia, neuropsicologia e psicologia) in grado di monitorare costantemente le numerose “fluttuazioni”, non solo motorie, ma, come abbiamo visto, legate a numerosi processi e dinamiche psicologici che caratterizzano la complessità della malattia di Parkinson.

 

Articolo di Cristina Bergia,  pubblicato su Vertici Network di Psicologia e Scienze Affini il 16/03/2005

http://www.wertici.it/rubriche/studi/template.asp?cod=8872

 

Pubblicato su Psicolab, Laboratorio di Ricerca e Sviluppo, all'interno di Neuroscienze.net, il 26/04/2005.

 http://www.psicolab.net/index.asp?pid=idart&cat=2&scat=22&arid=535

 

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